martedì 10 maggio 2011

Perchè il meme si propaga dal punto di vista neuronale: i neuroni specchio

Approfondiamo un po' il discorso sui meme concentrandoci sui neuroni specchio (tra l'altro non posso non notare che la maggior parte dei miei post hanno a che fare con le neuroscienze, con la psiscologia ecc. Che voglia significare qualcosa?) che forse rappresentano l'aspetto che più mi ha colpito dei meme,

Alla base del meme come fenomeno linguistico c’è un necessario sub­strato biologico e psicologico. Non ci potreb­be essere, in altre parole, il meme se non ci fossero innanzitutto quelle par­tico­lari cellule che sono i neuroni specchio, ubicati nell’area di Broca del nostro cervello e scoperti all’inizio degli an­ni Novanta. Il meme infatti, come si è visto, si diffonde per imita­zione e dif­ficilmente potremmo imitare alcunché senza disporre di un mecca­nismo in grado di codificare in formato neurale l’informazione sensoriale e motoria che pertiene a un atto o a un insieme di atti.

Il sistema dei neuroni specchio determina l’insorgenza di un spazio condiviso, nel senso che, percependo il movimento impresso da altri al proprio corpo, ne cogliamo il senso strettamente motorio prima ancora che concettuale, essendo basata la comprensione del gesto su un vocabolario di atti già presente nel nostro cervello. Questo consente di riconoscere negli altri un comportamento che già sappiamo nostro, tanto è vero che sia nell’ipotesi che il gesto comunicativo venga da noi posto in essere sia che lo osserviamo in altri, viene attivata la stessa area neuronale. Percepito l’altrui movimento, anche se in modo riflesso e inconsapevole, potremmo essere portati dunque a imitarlo e replicarlo. Nel contempo siamo portati anche a compartecipare di ciò che l’atto motorio emozionalmente esprime provando noi stessi le medesime sensazioni avvertite da chi quell’atto ha compiuto. Questa condivisione emozionale sta alla base del trasporto emotivo che si prova a teatro o al cinema o alla televisione nel vedere gli altri gestire la propria corporalità. Tutto ciò va a favore di chi sostiene che l’uomo  sia un “animale sociale” essendo in grado di trovare la propria identità grazie all’altruità che lo circonda.

Il meme consente dunque il nostro allineamento cognitivo ed emozionale con gli altri, rendendoci percettivi e pronti alla trasmissione dei segnali comunicativi e facendoci sentire parte di un insieme.

domenica 8 maggio 2011

I meme: virus della mente


In un post precedente ("Una canzoncina fastidiosa che risuona nelle orecchie? Serve a ricordare") ho citato l'esistenza dei meme :"Chi si occupa di marketing studia infatti le caratteristiche comuni dei tarli per trasmettere memi (concetti che funzionano come infezioni) per vendere".

Ma cosa sono i meme? Proviamo a conoscerli un po' meglio.

L’idea centrale della memetica, protoscienza che studia il fenomeno dei meme, nata da un concetto coniato da Richard Dawkins nel 1976 nel suo best seller “Il gene egoista”, è che esistano delle unità di trasmissione della cultura, che sono chiamate meme (dal greco μίμεμα). Si tratta più esattamente di un’unità di informazione, semanticamente autosufficiente, propria della cultura umana, che ha la capacità di replicarsi da un soggetto a un altro per imitazione volontaria o meno.

In altri termini, i meme sono delle idee che, trasmesse da mente a mente, acquisiscono una sorta di vita autonoma e manifestano una loro caratteristica capacità di diffusione e replicazione.

Esistono pertanto dei meme “forti” cioè con alta capacità di diffusione e replicazione, e meme “deboli”, con scarsa capacità di diffusione e replicazione. Un esempio eclatante di meme efficace in chiave storica è stata l’ideologia nazista le cui credenze si diffusero rapidamente nella Germania tra le due guerre mondiali, come un virus della mente era stato in grado di infettare le menti del popolo tedesco a prescindere dal fatto che fossero idee valide.

Dal punto di vista della memetica, non è importante infatti quanto un’idea sia vera o profonda, ma come e quanto si diffonda e si replichi. La proprietà di un meme di essere trasmesso dipende dalle sue proprietà intrinseche.

Il meme si diffonde principalmente in quattro modi: per condizionamento o per ripetizione, per dissonanza cognitiva, come cavallo di troia o per imitazione.

Se si sente un qualcosa che viene ripetuta sufficientemente con una certa frequenza diventa parte del nostro codice comportamentale. Lo sanno bene i pubblicitari che sfruttano questo fenomeno iterativo concentrando tutta l’efficacia del messaggio nelle poche battute del cosiddetto “claim”, breve frase di effetto (“Vodafone: life is now”, “Grey, ottimo direi”) che fa scattare l’associazione del meme al prodotto da vendere. Questo messaggio induce (e seduce) il compratore che sarà anche inconsciamente portato a credere di non acquistare solo il prodotto in sé, ma anche il valore aggiunto incorporato al prodotto, l’immaginario metaforico che il pubblicitario sarà stato in grado di caricare su quello stesso bene. 

Il meme si diffonde anche per dissonanza cognitiva, nel senso che la struttura razionale della nostra mente ci porta a trovare un senso logico anche in ciò che apparentemente non ne ha, producendo in tal modo altri meme. Davanti a una situazione che non capiamo, siamo portati a “trasformarla” in modo da poterla capire e comunque decodificare e in questo processo di adattamento mentale vengono liberati nuovi meme per ristabilire l’equilibrio che si era rotto con l’in­gresso di un dato non congruente.

La terza modalità di trasmissione è quella propria del cavallo di troia che sfrutta il fatto che il soggetto ricevente abbia una particolare predisposizione per un certo meme (si pensi a una mamma recettiva, in modo selettivo, al pianto di un bambino). Così il cavallo di troia sfrutterà questa situazione per veicolare insieme all’informa­zione-civetta anche altri meme a quella associati.

Il meme si trasmette infine per imitazione e l’imitazione è stata una delle spinte evolutive più efficaci, posto che chi era in grado di maggiormente imitare i propri simili e dunque di aumentare il proprio bagaglio di competenze, ha accresciuto la possibilità di sopravvivenza. Il linguaggio è nato per la necessità di liberare le mani occupate dalla comunicazione gestuale — l’unica un tempo possibile — onde poterle impiegare nella difesa o nell’attacco, coordinandosi nel contempo con il resto del gruppo, anche di notte e a distanza.

Si ipotizza che tutto ciò sia stato possibile per la presenza nel nostro cervello dei cosiddetti neuroni specchio, un sistema che svolge un ruolo fondamentale nell’imitazione codificando l’azione osservata in termini motori e rendendo in tal modo possibile una sua replica. Si pensa infatti che sia stata la progressiva evoluzione di tale sistema, originariamente deputato al riconoscimento di atti transitivi manuali (afferrare, tenere, raggiungere…) e orofacciali (mordere e ingerire…) a fornire il substrato neuronale necessario per la comparsa delle prime forme di comunicazioni interindividuale. Ed è a partire dal sistema neuronale posto sulla superficie laterale dell’emisfero che si pensa si sia evoluto nell’uomo il circuito responsabile del controllo e della produzione del linguaggio verbale. 

La definizione di meme data in apertura è quella più comune, ancorata alla biologia. Esiste però almeno un’altra definizione importante di tipo psicologico, quella di Plotkin secondo cui il meme è un’unità di eredità culturale analogo al gene, l’interna rappresentazione della conoscenza. La memetica applica concetti mutuati dalla teoria dell’evoluzione (in special modo la genetica delle popolazioni) alla cultura umana. Cerca di spiegare fenomeni estremamente controversi, quali la religione o i sistemi politici, usando modelli matematici. C’è tuttavia anche scetticismo nell’utilizzare l’analogia tra meme e gene, soprattutto sulla possibilità di eseguire verifiche sperimentali.

Considerate le caratteristiche di diffusione del meme il suo comportamento è stato paragonato a quello del virus (si parla infatti di virus del linguaggio come scrisse Richard Brodie nel suo libro Virus of the Mind). È naturale pertanto che si sia pensato se è possibile difendersi dal virus creandosi una sorta di vaccinazione mentale (“Si può resistere ai meme?”).


Ho deciso di parlarne perché è un argomento che  ha suscitato in me molto interesse, tanto da spingermi a leggere qualche libro a riguardo (vedi bibliografia sotto) in quanto lo trovo profondamente attuale. Voi che ne pensate a riguardo?

Fonti: Richard Brodie, Virus of the mind, The New Science of the Meme, London, Hay House UK, 2009:
Giacomo Rizzolatti e Corrado Sinigaglia, So quel che fai, il cervello che agisce e i neuroni specchio, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2006

venerdì 6 maggio 2011

Una visita all'osservatorio Astrofisico di Arcetri


Giovedì 14 aprile, un gruppetto di amici, armato d’entusiasmo e di buoni propositi, si è recato presso il colle d’Arcetri per una singolare serata: effettuare una visita guidata notturna al celebre Osservatorio. Purtroppo il tempo non si è rivelato complice della nostra buona volontà, riservando pioggia e nubi, per cui non ci è stato possibile usufruire a pieno delle iniziative a noi proposte (tra le quali una visita notturna al parco astronomico e l’osservazione di stelle e pianeti con il telescopio Amici). Gli organizzatori della serata hanno però in qualche modo rimediato riservandoci una visita alternativa “al coperto” che ci permettesse di soddisfare in ogni caso le nostre curiosità astronomiche.
L’Osservatorio di Arcetri, nato nel 1872, ha soppiantato l’osservatorio astronomico di Firenze de “La Specola”, annesso al Reale Museo di Fisica e di Storia Naturale, ritenuto un luogo poco adatto a causa dell’inquinamento luminoso proprio della città. Il trasferimento ad Arcetri, voluta dall’astronomo Giovan Battista Donati, ebbe anche un significato simbolico, in quanto poco lontano si trova la villa de "Il Gioiello", ultima dimora di Galileo Galilei.
Attrattiva principale della nostra visita notturna è stata il telescopio Amici, collocato nel padiglione della struttura che abbiamo potuto ammirare in tutta la sua storica bellezza mentre la nostra guida ci illustrava la storia dell’Osservatorio e del celebre telescopio. Per la gioia di esperti e curiosi di ogni età, abbiamo potuto ripercorrere, mediante un ampio schermo LCD e un programma di visualizzazione computerizzato, la volta stellata sovrastante alla ricerca di pianeti, stelle e costellazioni.
Molto apprezzata da noi visitatori, per la sua spettacolarità, è stata inoltre l’osservazione dei raggi cosmici e della radioattività naturale tramite la cosiddetta ‘camera a nebbia’: questo particolare strumento rileva tali particolari raggi, che, al loro passaggio, lasciano delle scie (di spessore diverso, a seconda delle particelle che lo compongono) rimanendo tracciabili nel gas all’interno del rivelatore. Prima di accomiatarsi da noi, la nostra guida ci ha regalato, in ricordo di un’esperienza istruttiva sicuramente da consigliare, una copia stampata della vista alto-azimutale del cielo che evidenziava le costellazioni visibili dal nostro punto di osservazione. 


Vi è mai capitato di andare in un posto specificamente per un motivo e poi rimaner "delusi" da condizioni (nel mio caso atmosferiche) avverse?
C'è qualcuno che è mai stato ad Arcetri?

domenica 1 maggio 2011

Assignment 3: Coltivare le connessioni (2)

Andiamo alla mostra di Hirst, usciamo, scattiamo una foto tutti insieme, come ricordo della piacevole mattinata trascorsa. Mentre ancora sorridiamo davanti alla macchina fotografica ecco comparire una gentile signora.

Un attimo: la signora indica l’immagine su libro (“that’s my husband!”). Rimaniamo senza parole. Lo invitiamo a scattare una foto con noi. Chissà da dove proveniva. Her husband è colui che ha incastonato le pietre sul prezioso teschio di Hirst (vedi post prima Assignment 3: Coltivare le connessioni (1) "L’icona della morte? È Glamourous-->il proseguo)
Gli chiedo di scattare una foto tutti assieme e lui acconsente. E così la pubblico sul blog, la rendo accessibile a tutti. Ho provato, ricercando su internet, a trovare il suo nome. Ancora non che l’ho fatta, ma nel caso ci riuscissi, potrei inserirlo nel blog e forse lui potrebbe risalire a questo post che ho da poco tempo pubblicato. E forse potrebbe (dalla sua dimora… forse negli Stati Uniti?) mettersi in contatto con noi, in Italia, a Firenze, esprimendo il suo piacere per la singolare circostanza, oppure manifestando i suo dissenso per la pubblicazione della foto. E così, attraverso internet, mediante un’immagine che (come ci disse una nota marca di telefonini,  solo dieci anni fa, quando il telefono sapeva solo chiamare le persone) “comunica più di mille parole”, avremmo stabilito una connessione. 

In un’altra circostanza, magari analoga a questo evento sarebbe potuto diventare un modo per intrecciare nuovi rapporti, cominciare a scambiarci idee, accrescerci dal punto di vista umano e conoscitivo. E mentre ancora mi interrogo, cercando di capire se mai questa connessione troverà il lieto fine non posso fare a men di affermare: “che straordinario strumento è internet”. Alla fine non ho messo in atto alcuna particolare conoscenza per cercare di “chiudere questo circuito”: non ho dovuto studiare per capire come scattare la foto, caricarla su internet e scrivere un post a riguardo. Osservando gli altri, procedendo per tentativi e per errori (e perché no, anche arrabbiandomi alle volte perché ciò che mi figuravo in testa non riuscivo a renderlo nello cyberspazio) sono riuscita a farlo. Qualcuno potrebbe chiedersi “a cosa è utile tutto ciò?”. A stabilire delle connessioni. A creare nuovi rapporti con le persone affinché possano trasmetterci qualcosa, insegnarci qualcosa, comunicarci qualcosa.

Cercando di immaginare come tutto ciò potrebbe risultarci utile dal punto di vista didattico, mi viene in mente un episodio della mia amata serie televisiva di Grey’s Anatomy: la dottoressa Bailey (chirurgo) decide di prender parte a un esprimendo, eseguendo interventi “in diretta” su twitter. Alcuni specializzandi la assistono durante l’intervento, una telecamera riprende quanto stia accadendo (dopo che il paziente ha opportunamente firmato il consenso) e altri studenti tengono in mano dei telefonini con i quali rispondono ad altri studenti (connessi, via internet chissà dove) che stanno seguendo l’intervento a scopo didattico. Addirittura vi è una scena in cui un collega chirurgo (seduto alla scrivania del suo studio, chissà da quale ospedae) durante una fase critica dell’intervento propone, via twitter, una risoluzione, complicata, ma che sarebbe in grado di salvare la via al paziente. E così il paziente si salva.

È questa la prima immagine che mi è venuta in mente dopo la lettura del pamphlet del professore “Collegare le connessioni”. Gli spunti di riflessione sono tanti, le cose da dire sarebbero altrettante, l’immagine che è apparsa chiara nella mia mente alla lettura del testo è quest’ultima sopra descritta.

Leggo (nel testo del professore) e riscontro come una realtà toccabile con mano che stiamo perdendo il contatto con tutto ciò che è vivente. Andiamo a scuola cercando di inserire una serie di nozioni nella nostra mente come se fosse un vaso da riempire. Con cosa? Non si sa. “Come non si sa!” “Beh poco importa se non hai capito. Domani c’è il compito. Torna a casa e studiati le 30 pagine a riguardo. Ah e domani sii in grado di ripeterle per bene. E cerca di prendere un bel voto. Perché si sa, la tua conoscenza è direttamente proporzionale al voto che hai preso, altrimenti a cosa servono i voti?” “Hai preso 10? Vorrà dire che hai capito tutto!” “Mah veramente ho capito poco… ma c’era il compito alle porte… mi sono imparato tutto a memoria…”

Dobbiamo cercare di opporci a questa tendenza che rischia, alla fine di far solo perdere del tempo, a sprecarlo in maniera inesorabile. Sì perché alla fine avremo imparato poco e così, settimana prossima ci sarà un altro compito. E così via…

Dobbiamo prendere atto di questa situazione e cercare di cambiarla. Come? Sfruttando gli strumenti a nostra disposizione, imparando a conoscere gli elementi protagonisti del nostro personal learning environment (unici, per ogni persona) e sfruttarli a pieno, affinichè quella serie di nozioni non vadano perse per sempre, ma diventino conoscenza. Chiunque dovrebbe tenerlo bene a mente, ma soprattutto noi che desidereremmo diventare dei buoni medici e non possiamo permettere che la nostra preparazione sia “vuota”, un voto di laurea eccellente, anche 110 e lode, ma vuoto in consistenza.

Attraverso questo corso abbiamo imparato che internet non è un contenitore di oggetti raccolti solo in maniera disordinata, contenente informazioni inutili o utili soltanto a pochi. C’è stato chi, prima di noi ha cercato di riunirli in maniera ordinata, mostrandoci il modo migliore per coltivare le nostre connessioni, il nostro giardino personale, rimanere sempre in contatto con ciò che più ci interessa attraverso i Feed RSS, attraverso PubMed che addirittura ci fornisce articoli d’avanguardia utili per i nostri studi, (non ancora del tutto purtroppo) accessibili, studiabili, confrontabili.

Facciamo un esempio: presso la nostra università purtroppo non ci è più possibile assistere a delle dissezioni. Nonostante le proteste di professori universitari, studenti più o meno avanti con gli anni, niente è stato smosso: la ex sala dissezioni della nostra Facoltà è ormai una sala come tante altre. Ma noi come faremo l’anno prossimo ad affrontare il complicato ed estremamente articolato studio dell’Anatomia? Come possiamo far sì che i rapporti tra gli organi e gli apparati non risultino solo una serie di nozioni apprese dalle pagine di un libro, sicuramente non sotto forma di immagini tridimensionali?
Beh, mentre attendiamo che le nostre lettere ottengano qualche riscontro a livello comunale possiamo usare internet, youtube, i numerosi siti che offrono video su dissezioni praticate magari in qualche college negli Stati Uniti. Possiamo sfruttare gli strumenti a nostra disposizione. Possiamo coltivare le nostre connessioni con studenti dall’altra parte del mondo, con le nostre stesse ansie di studenti alle prime armi. Possiamo così creare il nostro PLE e premetterci di camminare per il nostro bosco, passo dopo passo, da soli, ma forti del fatto che possiamo contare sull’aiuto degli altri. E se la conoscenza tramite tutto ciò che è vivente sta, piano piano svanendo tento, nel mio piccolo, di oppormi fin da adesso a questa tendenza, per evitare con tutte le mie forze di diventare un medico freddo, senza empatia che si nasconde dietro parole forbite e tecniche. E per fare ciò cerco il contatto con gli altri (praticando volontariato? Sforzandomi di imparare ad ascoltare le persone?), anche se questo contatto può non per forza pervenire dal diretto contatto con il vivente, ma tramite un oggetto, il computer e internet.

Assignment 3: Coltivare le connessioni (1) "L’icona della morte? È Glamourous-->il proseguo"

Non potevo non inserire questa foto, scattata poco dopo aver visto lo sfavillante teschio di Hirst. Ancora increduli per come sia stato possibile esserci trovati "nel posto giusto, al momento giusto", mentre eravamo davanti al poster, in Palazzo Vecchio ci è passato accanto colui che ha incastonato le pietre sul prezioso teschio. A indicarcelo è stata la moglie che tenendo in mano un libro esplicativo dell'opera di Hirst ci ha indicato il marito (in un'immagine, nell'atto dell'incastonatura) dicendo "That's my husband!"

Una canzoncina fastidiosa che risuona nelle orecchie? Serve a ricordare

L’anno scorso un ragazzo di 21 anni si è rivolto disperato agli psichiatri del Central Institute di Kanke nel Jharkland indiano: da 5 anni gli frullava in testa l’intera colonna sonora di un film hindi, quasi 3 minuti di musica con fino a 35 replay al giorno. Un caso che si è rivelato persino resistente ai farmaci. Fortunatamente il suo è un caso estremo, di solito non è necessario ricorrere alla chimica: il tarlo dell’orecchio, o öhrwurm (così lo chiamarono i ricercatori tedeschi a fine ’800, o earworm per gli inglesi), è molto comune. 
Ma che cos’è? 
Come farlo sloggiare? 


L’orecchio, in realtà, c’entra poco: si tratta di “parassiti” musicali del cervello: nel 1987 una rivista li definì “agenti musicali cognitivamente infettivi”; successivamente furono rinominati Mir o Musical imagery repetition cioè “Ripetizione di immagini musicali”. 
Il fenomeno è comune: il 98,2% delle persone sa di cosa si tratta. 


Gli studi finora condotti hanno dimostrato grandi differenze individuali: per alcuni è un occasionale, piacevole sottofondo musicale che tiene compagnia; per altri un fastidioso ritornello di cui non riescono a liberarsi; solo per pochi, il 10% della popolazione, il ritornello diventa un’ossessione fastidiosa. Sono questi ultimi i casi in cui gli earworm diventano sintomi, insieme ad altri, di una patologia ossessivo-compulsiva. 


Daniel Levitin, neuroscienziato e musicofilo, si è concentrato sulle caratteristiche dei tarli scoprendo che sono spezzoni molto brevi, di 15-30 secondi. E James Kellarsi, docente di marketing all’University of Cincinnati, ha individuato le caratteristiche intrinseche del brano musicale: 


1. ripetitività di certe strutture musicali, come per esempio i ritornelli, ma anche 
2. semplicità musicale, 
3. incongruità tra testo e musica o 
4. tra ritmo e metrica. 


Chi si occupa di marketing studia infatti le caratteristiche comuni dei tarli per trasmettere memi (concetti che funzionano come infezioni) per vendere.


Bennett però ha avanzato un’ipotesi affascinante, che spiegherebbe l’universalità del fenomeno: i tarli sarebbero sistemi di consolidamento mnemonico, fenomeni di un nuovo tipo di memoria, che chiama audio-eidetica, in cui la musica aiuta a ricordare le parole o gli avvenimenti cui è legato quel brano. 
Se Bennett avesse ragione, i tarli dovrebbero essere benvenuti perché fanno riemergere i ricordi cui sono legati. 


David Kraemer, specializzando in scienze cognitive del Dartmouth College nel New Hampshire, usando la risonanza magnetica ha dimostrato che l"’iPod del cervello" è nella corteccia uditiva, che registra e conserva le nostre memorie uditive. Ed è la corteccia uditiva che decide quale tarlo “trasmettere”. Forse alcuni tarli sono più presenti di altri, ma altri studi dimostrano che ci sono poche sovrapposizioni, come se ogni cervello avesse una sua predisposizione. 


Come possiamo cancellare il nostro earworm? Sembra essere inefficace la strategia di focalizzare l’attenzione su compiti diversi. E cercare attivamente di dimenticare il ritornello rende il tarlo ancora più persistente per le caratteristiche stesse della memoria: se si legge “non pensare all’elefante rosa” diventa impossibile non pensare a un elefante rosa. Diana Deutsch, ordinario di psicologia all’University of California a San Diego, sostiene che, quando i tarli si fanno fastidiosi, riflettono dei retropensieri, una sorta di post-it che invita a ricordare: spariscono quando si trova il legame.

A voi è mai capitato?
A me sì, in particolare ricordo che per un determinato periodo (sarà stata una settimana buona) ogni volta che mi svegliavo echeggiare nella mia testa le note e le parole della canzone "Maybe I'm amazed" di Jem (per chi ai tempi vedeva OC dovrebbe averla presente...) perché la associato a una decisione che dovevo prendere e che continuavo a rimandare. Effettivamente, quando la presi, scomparve il mio worm.

Fonti: